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NBA – Gary Harris: “I miei Nuggets come gli Warriors? Grazie, ma noi vogliamo batterli”

NBA - Gary Harris: "I miei Nuggets come gli Warriors? Grazie, ma noi vogliamo batterli"

Gary Harris viene dall’Indiana, da sempre una delle culle del basket americano. Fishers, Indiana — per l’esattezza. Un posto che recentemente ha fatto parlare di sé perché un tizio è entrato all’IKEA locale interessato a comprare un divano e nel sedersi e poi rialzarsi testandone la comodità non si è accorto di aver perso la propria pistola, scivolatagli dalla tasca. Il primo a trovarla, abbandonata sul divano, è stato un bambino di sei anni. Che ha sparato — fortunatamente senza colpire nessuno. Tom Weger, che di Fishers è il sergente di polizia, ha dovuto ricordare di fare più attenzione, ma nel rispetto del secondo emendamento (e grazie all’intoccabile potere della National Rifle Association, una delle lobbies più importanti del Paese) in USA succede anche questo. Mamma Joy Holmes-Harris — All-American a Purdue, dove la sua maglia è stata ritirata — non ha portato via da Fishers un giovanissimo Gary Harris per questo motivo, ma solo perché la sua carriera di giocatrice professionista l’ha portata a giocare — oltre che in Giappone e a Detroit, con le Shock della WNBA — nelle Noise di Nashville, ABL (American Basketball League) ed è quindi in Tennessee che Gary ha vissuto per un po’ di tempo (diventando grande tifoso dei Titans, della NFL). Quando aveva 7 anni, però, è ritornato in Indiana, a Fishers, e oggi si considera in tutto e per tutto un prodotto dello stato che ha forgiato Bobby Plump (l’eroe di Hoosiers — Colpo Vincente) e Oscar Robertson, i gemelli Van Arsdale, Dick e Tom, Steve Alford e Damon Bailey, poi anche Glenn Robinson, Greg Oden ed Eric Gordon — oltre a un certo Larry Joe Bird. Con tutti loro — con l’unica curiosa eccezione proprio del leggendario n°33 dei Celtics — Harris condivide un titolo prestigioso, quello di essere stato votato Mr. Basketball statale, che nell’Indiana ha un significato ancora più speciale che negli altri 49 stati USA.

Cosa vuol dire vincere il premio di Mr. Basketball dell’Indiana?

“Un orgoglio indescrivibile, perché la tradizione statale nel basket è stata costruita anno dopo anno da nomi di campioni fenomenali e poter essere parte di quella famiglia è un risultato che nessuno potrà mai portarmi via. Il mio nome resterà sempre associato al titolo di Mr. Basketball dell’Indiana nel 2012”.

Prima ancora, da ragazzino, in camera tua avevi scelto di appendere uno striscione con un messaggio molto chiaro: “Cos’hai fatto oggi per diventare un giocatore NBA?”.

“Sì, è pazzesco, perché al tempo magari non ci pensi davvero, ma insieme a tutti i poster che avevo appeso ai muri dei giocatori che più amavo — c’erano Michael Jordan, Kobe Bryant, Tracy McGrady, Allen Iverson, Damon Stoudamire ma anche campioni di football come Randy Moss ed Eddie George — c’era anche questo banner, in realtà un’idea di mio padre. Al tempo non gli davo neppure troppa importanza, ma quando sono tornato a casa la prima volta dopo essere stato scelto al Draft 2014 ho avuto un momento quasi surreale, in cui mi sono fermato un momento e ho realizzato che il mio viaggio in qualche modo si era concluso, che avevo fatto quadrare il cerchio: ero davvero diventato un giocatore NBA”.

Atteso tra le prime 10 chiamate al Draft, sei scivolato fino alla n°19. Come mai?
“Sappiamo che il Draft è pazzo, non si sa mai come vanno a finire le cose, può davvero succedere di tutto. Se ero deluso? Assolutamente sì, certo che lo ero, ma alla fine — quando le acque si sono calmate e la situazione si è stabilizzata — ero soltanto felice di aver raggiunto il mio obiettivo, ed esser diventato un giocatore NBA. Io credo fermamente che tutto quello che accade, accade per una ragione e Denver alla fine è stata la soluzione migliore per me, nonostante un inizio difficile in cui il primo anno giocavo poco o nulla, facendo davvero fatica. Sono rimasto concentrato, non ho mai smesso di crederci, ho continuato a dedicarmi anima e corpo alla pallacanestro, andando in palestra ogni giorno e dopo aver lavorato duro per tutta l’estate al via del mio secondo anno sono diventato titolare e non mi sono più fermato, sfruttando al massimo ogni opportunità che mi capita, cosa che sto facendo ancora oggi”.

In quei Denver Nuggets che ti hanno accolto nella NBA nel 2014 c’era anche Danilo Gallinari.

“Un ragazzo fantastico, uno che mi ha sempre aiutato e dato una mano fin dai primi giorni di training camp. L’ho sempre considerato un amico, perché mi è stato molto vicino quel primo anno quando non giocavo, quando non ero titolare, e poi siamo cresciuti assieme — per cui oggi quando lo rivedo o lo affronto anche da avversario tra noi c’è sempre grande amicizia e rispetto. Se fuori dal campo lo considero uno dei miei buoni amici della NBA, in campo non posso che apprezzare la sua versatilità: è alto 2.08 e può far tutto, tirare, passare, palleggiare, come se fosse una point guard. Ha tantissimo talento e sa davvero capire il gioco, è un realizzatore d’élite anche nella NBA e un gran giocatore: mi spiace che non sia più con noi ai Nuggets”.

Parlaci del ruolo che ha avuto coach Michael Malone nel tuo sviluppo e nel tuo successo come giocatore.

“Gli devo moltissimo, perché ha scelto di credere in me e promuovermi in quintetto dopo un primo anno in cui avevo giocato pochissimo. Lo ringrazio in continuazione per il semplice fatto di avermi dato una possibilità, perché chissà come sarebbe oggi la mia carriera NBA se lui non avesse scelto di credere subito in me. è arrivato a Denver, ha deciso di dare una chance a un ragazzino come me e da allora la nostra relazione non ha fatto altro che crescere: ogni volta che scendo in campo sento come un obbligo verso coach Malone di dare tutto quello che ho dentro, perché è lui che ha reso possibile tutto questo”.

Al termine di quel secondo anno fai parte del Select Team che prepara la nazionale USA alle Olimpiadi di Rio, in Brasile. Quanto ti ha aiutato giocare contro Kryie Irving, Kyle Lowry, DeMar DeRozan e tutti quei grandi nomi?

“È stata una bellissima esperienza, perché sai che anche questi grandi nomi hanno iniziato proprio così, misurandosi coi più forti. Avevano fatto da sparring partner alla generazione precedente — quella dei Kobe Bryant e degli altri — e ora indossavano la maglia di Team USA. Far parte del Select Team l’ho visto come una conferma di essere sulla strada giusta per diventare un gran giocatore, approfittando dell’occasione per assorbire ogni segreto — come lavorano in allenamento, come si comportano fuori dal campo — e continuare a migliorare. Se fai parte del gruppo di giovani talenti chiamati a impegnare Team USA vuol dire che sei considerato il futuro della lega, e l’obiettivo è quello di far parte prima o poi della nazionale e finire per affrontare a tua volta i migliori giovani delle generazioni future”. 

Qualcuno in particolare ha svolto un ruolo importante nello svezzarti alla vita NBA?

“Non tanto del gruppo di Team USA quanto più un insieme di giocatori provenienti dall’Indiana oppure da Michigan State, dove sono andato al college. Erano quei giocatori a cui guardavo come ispirazione da ragazzino e che alla fine hanno svolto un ruolo importante nel mio processo di crescita, gente come Eric Gordon, Mike Conley, anche E’Twaun Moore — tutti dell’Indiana — oppure Jason Richardson, Zach Randolph, Draymond Green, i miei veterani targati Spartans. Sono loro che mi hanno aiutato di più”.

I Nuggets di oggi sono visti come una squadra giovane e futuribile, grazie soprattutto alla presenza di un terzetto che si compone di te, Jamal Murray e Nikola Jokic.

“Di Jokic che altro si può dire? È un talento pazzesco, è alto 2.13 ma sa passare il pallone come una point guard, sa tirare, ha tantissimo talento e un gran tocco vicino al ferro, oltre a essere un giocatore molto altruista, uno che gode nel rendere migliori i suoi compagni. Jamal [Murray] è quello che più di tutti ama la competizione e le sfide: vuole vincere ogni singola volta che scende in campo, per cui da compagno sai che con lui al tuo fianco c’è sempre un assoluto impegno a dare il massimo e fare tutto il possibile per vincere. Ha appena compiuto 21 anni e segna già 16 punti di media nella NBA da point guard, il ruolo più difficile oggi nella lega: ha davanti a sé un futuro davvero luminoso. È vero, siamo un gruppo giovane, con parecchio talento, e tra noi andiamo molto d’accordo: è divertente vedere la crescita di questo gruppo”.

Dove metti la coppia Murray-Harris tra le grandi coppie di guardie nella NBA?

“Non lo so, non sta a me dirlo perché ogni giudizio potrebbe magari venire frainteso, per cui lascio che siano gli altri a giudicarci. Con Jamal mi trovo benissimo, amo giocarci assieme, sono convinto che formiamo una gran bella coppia in campo e che l’anno prossimo disputeremo un’ottima stagione”.

Quanto vi è mancato Paul Millsap quest’anno [solo 38 gare disputate, ndr]?

“Tantissimo, perché il suo arrivo in estate ne ha fatto automaticamente uno dei cardini della nostra squadra. Non è stato facile dover fare a meno di lui per tutta la prima parte di stagione, perché essendo una squadra giovane Paul è il veterano a cui tutti guardiamo come esempio — e a lungo abbiamo potuto approfittare della sua presenza soltanto in palestra, in spogliatoio o in panchina durante le partite ma non in campo. Allo stesso tempo credo che la sua assenza ci abbia costretto a crescere e maturare più velocemente e così quando è tornato in campo verso la fine della stagione — anche se si poteva vedere che non era ancora a posto del tutto fisicamente — la sua forza era tutta lì da vedere. Sono certo che con lui in squadra faremo bene l’anno prossimo”.

Con lui a roster l’obiettivo sono i playoff?

“Sì, c’eravamo già stati vicini quest’anno e con Millsap in campo sono convinto che li avremmo già raggiunti”.

Proprio tu hai accompagnato i dirigenti di Denver al meeting di reclutamento decisivo: qual è stata la strategia per convincerlo?
“Semplicemente quella di fargli sapere che sentiamo di avere un nucleo giovane davvero promettente e che questa situazione poteva essere quella ideale per lui: se avesse scelto di unirsi a noi poteva puntare a vincere diventando immediatamente una delle pietre angolari di questa squadra, un pezzo centrale del nostro successo. Siamo convinti possa inserirsi perfettamente nella nostra realtà: il primo anno la fortuna non ci ha aiutato, ma è legato ai Nuggets da un altro anno di contratto e vogliamo fare di tutto sfruttare al massimo la prossima stagione”.

Il tuo nome è stato paragonato ai migliori two-way player della NBA, come Kawhi Leonard e Klay Thompson. Ti piace la comparazione?
“Non amo troppo i paragoni, a dire il vero, anche se ovviamente quelli sono due nomi fantastici a cui essere accostati. Per me però è più improntante scendere in campo e cercare di essere il miglior giocatore possibile per i Denver Nuggets, per aiutarli a vincere il più possibile e ritornare ai playoff”.

Un nucleo giovane e di talento, giocatori scelti dal Draft, stile di gioco divertente: Denver viene spesso paragonata a Golden State. Sono gli Warriors il modello a cui guardate?

“Quel tipo di cammino comune porta spesso la gente a paragonarci a loro — e lo capisco, perché anche a noi piace giocare in modo altruistico, passandoci tanto il pallone [7° nella NBA per percentuale di assist, ndr], in velocità, con punteggi alti [6° per punti a partita e offensive rating, nella top 10 per punti per possesso ottenuti in transizione, ndr]. Alla fine però quello che mi interessa di più è continuare a migliorare come squadra: fa piacere essere menzionati insieme ai Golden State Warriors, ma il nostro obiettivo dev’essere quelli di arrivare ad affrontarli in campo, ai playoff, e magari riuscire a batterli”.

Sei più orgoglioso del tuo apporto in attacco o in difesa?

“Entrambi. Non sai mai che tipo di partita ti aspetta, a volte il tiro può non entrare e magari giochi malissimo in attacco; anche in quelle serate però quello che puoi controllare è il tuo sforzo difensivo e quindi se dai tutto in difesa puoi comunque contribuire al successo della tua squadra”.

Deluso dal fatto di non essere stato incluso nei migliori quintetti difensivi della NBA?

“Uhm, no — ero deluso dal fatto di non aver raggiunto i playoff. Se fosse successo mi avrebbe fatto piacere, ma non sono io a decidere: quello che posso fare io è scendere in campo e giocare a un livello ancora più alto il prossimo anno. Potrebbe essere uno dei miei obiettivi per le prossime stagioni ma l’unica cosa che mi importa davvero è vincere, perché se vinci poi arrivano più facilmente anche i riconoscimenti personali”.

Solo due guardie hanno chiuso la scorsa stagione tirando meglio al ferro di te: LeBron James e Ben Simmons.

“Sì, nessuno ama sbagliare tiri in avvicinamento a canestro e io ho lavorato molto per riuscire a finire nel traffico, in transizione, anche sfruttando il mio fisico [e un passato da giocatore di football, ndr]”.

Il Draft 2018 vi ha portato in dote Michael Porter Jr., scivolato fino alla n°14 per via dei dubbi sulla sua schiena. L’hai mai visto giocare?

“Sì, e posso soltanto dire che ha moltissimo talento; è raro vedere una combinazione tale di centimetri e capacità di fare praticamente tutto in campo. Da un lato non vedo l’ora di vederlo all’opera, perché sono certo che ci renderà una squadra migliore, ma dall’altro dobbiamo essere certi che sia completamente sano — e finché non lo è, dargli tutto il tempo necessario per rimettersi in sesto, senza nessuna fretta. Dalle prime sensazioni che ho avuto nel conoscerlo penso che farà di tutto per tornare in campo il prima possibile, senza ripetere ad esempio il caso Ben Simmons, che ha saltato il suo intero primo anno a Philadelphia per essere certo di recuperare completamente. Non vedo Michael avere questo tipo di pazienza: se la sua schiena sarà a posto, immagino voglia scendere in campo appena possibile”.

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